Personaggi, avvenimenti, tradizioni che hanno segnato la storia di Gesualdo dalla sua fondazione fino ad oggi.
a cura della Proloco Civitatis Iesualdinae
Ghiz wald (Gesualdo) era un fedele servitore del Principe Romoaldo, figlio del Duca di Benevento Grimoaldo.
Primo feudatario di Gesualdo, eroe della guerra tra i Longobardi e i Bizantini.
Il Feudo di Gesualdo
Gesualdo diede più volte prova del suo attaccamento ai Duchi, e questo gli procurò vari incarichi di fiducia, fra cui quello della costruzione di un grande fortilizio a difesa degli ampi possedimenti dei Signori. Venne scelto un punto in una posizione molto strategica, sulla sponda settentrionale del fiume Fredane, nella cui valle si snodava una delle principali vie che conducevano a Benevento, su di un colle a 650 metri di altezza, da dove si poteva controllare una vasta porzione di territorio del Gastaldato di Quintodecimo; lì fu costruito un maniero, e col tempo iniziarono a sorgere nei suoi pressi molte case, dando così luogo ad un vero e proprio paese. Il Duca Grimoaldo pensò di dare in feudo quella porzione di ducato al suo fedele Cavaliere e ai suoi discendenti, e da questi il paese prese il nome attuale.
Assedio di Benevento, il gesto eroico del Cavaliere Gesualdo
L’impresa di Sissoaldo è riportata nella prosa colorita del Bellabona:
“Questo Gesualdo, spedito ambasciatore dal duca di Benevento al re dei Longobardi Grimoaldo suo padre a fin che gli mandasse soccorso di gente per resistere all’empito dell’imperatore Costante, al ritorno dell’ambasciatore, fatto prigione dai Greci e condotto all’imperial presenza, li fè palese che fra breve sarebbe venuto soccorso. Ma avuto l’ordine, che il contrario al suo Duca dicesse, portato in mezzo ai Greci al Duca disse che stato fosse di buon animo conciosia che l’esercito fra due giorni gli sarebbe gionto in aiuto. Per aver detto il vero al suo Signore, l’imperatore sdegnato levar gli fè col ferro il capo dal corpo, e buttar dentro la città. Qual, pigliato dal Duca, lavandolo non con acqua naturale ma con lacrime, e nettandolo con con preziosi drappi, ma con li labbri per mezzo dei baci, dar gli fece onorata sepoltura”.
Secondo gli storici Scipione Ammirato, Giovanni Antonio Summonte, Alessandro Di Meo ed altri, l'eroe longobardo, balio del duca Romualdo, si chiamava Gesualdo e di conseguenza bisogna supporre che la terra donata agli eredi del cavaliere fosse chiamata Gesualdo. Tutti questi storici si rifanno all'autorevole Historia Longobardorum di Paolo Diacono, il quale però dice che l'eroico cavaliere si chiamava Sessualdo e non parla di donazioni agli eredi.
L'ipotesi di Cipriano de Meo, è che il nome medievale di Gesualdo fosse Gisivaldum, da Gis-wald, dove Gis o Ghiz è il nome del suddetto cavaliere e "wald" è bosco, foresta, quindi "Il bosco di Gis".
A memoria d’uomo, mai il palazzo della giustizia di Napoli era stato così pieno di gente lì accorsa fin dalle prime ore del mattino del 19 ottobre del 1590 per assistere al processo del principe Carlo Gesualdo che, nel corso di una drammatica notte, tra il 16 e il 17, aveva massacrato (come si esprimevano i colpevolisti) due giovani amanti o vendicato (come preferivano dire gli innocentisti) l’onore violato della famiglia dalla relazione tra Fabrizio Carafa e Maria, moglie di Carlo.
Tra questi estremi c’erano posizioni intermedie parteggiando chi per questi chi per quello con tale convinzione che si arrivava facilmente dalle parole ai fatti. Per ordine diretto del viceré quella tristissima vicenda che coinvolgeva tre delle famiglie più nobili del reame, con una fitta rete di parentele tra cui un cardinale, candidato ad ascendere al soglio pontificio, doveva chiudersi il più presto possibile e stendervi sopra il velo dell’oblio. La vicenda di per sè abbastanza banale acquisiva la sua rilevanza proprio per l’ambito aristocratico in cui si collocava e per la notorietà delle famiglie coinvolte, in primo luogo don Carlo il Principe dei musici, la principessa Maria, la donna più bella di Napoli decantata per il candore della sua pelle, già due volte vedova ed infine don Fabrizio, rampollo di una delle più antiche famiglie di Napoli. Non ci deve pertanto apparire strano che quel giorno fossero presenti gli osservatori delle principali città d’Italia con l’ordine di inviare ampie relazioni su questa vicenda che avrebbe potuto determinare tensioni tra i vari stati compreso il vaticano. Quando nell’aula fece il suo ingresso il giudice della vicaria, la folla o perché intimorita dal viso austero del magistrato o dal suo modo di parlare, uno spagnolo-napoletano infarcito di termini giuridici in latino e giaculatorie per invocare la protezione di santi e madonne sui regnanti di Spagna viceré di Napoli, tacque. Il giudice, mentre si aggiustava qualche orpello della toga fece subito capire che in quella udienza si doveva stabilire se, in base alle leggi vigenti, l’imputato andava prosciolto per aver agito in difesa del proprio onore o se andava processato. Questo che segue è il verbale delle varie testimonianze rese nel corso del dibattimento fedele nel contenuto un po’ meno nel linguaggio. Si faccia avanti l’imputato Carlo Gesualdo, conte di Conza, Marchese di Laino Rotondo, Duca di Caggiano, Principe di Venosa e feudatario del re con oltre cento feudi sparsi per l’Italia meridionale tra cui Bisaccia, Villamaina, Santaniello all’Esca, Montefredane.Figlio di Fabrizio e di Geronima Borromeo. Silenzio assoluto. Il Principe era contumace. Furono subito invitati a relazionare i capi della guardia, verosimilmente i primi ad entrare sulla scena del delitto. A descrivere il raccapricciante quadro è Giovan Domenico Micone: don Fabrizio Carafa vestiva una camiscia da donna a bassa lavorata con pezzilli e collaretti lavorati di seta negra. Il giudice era inorridito e disgustato da questi particolari drammatici e nello stesso tempo osceni e roteando la mano nell’aria fece comprendere al funzionario che era meglio sorvolare e non aggiungere scandalo a scandalo e chiese se il cadavere presentava segni di violenza e dove era stato trovato. Il funzionario della Gran corte della Vicaria, per quanto avvezzo a spettacoli di morte efferata, chiuse per un attimo gli occhi quasi a cancellare quello scenario terribile, poi riprese la sua narrazione: Insieme a me c’erano i signori Giovas Tommaso Salamanca, Fulvio di Costanzo, Regi Consiglieri, e Giudici Criminali della Gran Corte, ed il MI Pruratore fiscale. Saliti al secondo piano, nell’ultima stanza trovammo il corpo di don Fabrizio - riverso a terra. Una manica della camiscia era divenuta tutta rossa di sangue. Il duca d’Andria era tutto insanguinato e coperto di più ferite. Un’archibugiata gli aveva trapassato il braccio da una parte all’altra ficcandosi nel petto. La manica della suddetta camiscia era abbrusciata.Il giudice interruppe il particolareggiato racconto per ammonire la folla che non avrebbe più tollerato commenti ad alta voce del pubblico presente poi, quasi cercando una logica in questa successione di immagini ne ricostruì la dinamica: probabilmente, il duca, sorpreso a letto, ha afferrato la prima cosa che ha trovato, la camicia della principessa ed è fuggito nella direzione sbagliata, un corridoio senza via d’uscita. Qui si è trovato di fronte ad uomini armati, almeno due che hanno fatto fuoco a bruciapelo. Infatti come leggo da informazione da voi redatta un’altra archibugiata colpì la vittima alle tempie e passò attraverso l’occhio. Altre ferite inferte con armi a punta erano sulle braccia, in testa e in faccia. Avete fatto una ricognizione per verificare se il duca fosse o no armato? Nella medesima camera si è trovata solo una trabacca indorata con cortina di panno verde. Niente armi. Dove avete trovato la principessa, Maria D’Avalos? La principessa era distesa sul letto con il volto coperto dalle lenzuola. La scoprimmo delicatamente. Aveva lì cannarini tagliati, una ferita alla testa, e sulla tempia destra, una pugnalata in faccia, numerose ferite di punta sulle mani e sul fianco. Sul letto era poggiata una camiscia di uomo con latucchiglie imposimate, sulla poltrona di velluto cremisi fu trovata una manopola di ferro, con guanto di ferro imbrunito, un paio di calzoni di panno verde, un giubbone di tela gialla, un paio di calze di seta, un paio di calzonetti bianchi tutti trovati intatti e senza pertuso e senza macchia di sangue. Avete trovato segni di effrazione? Sì la porta a basso aveva la maniglia rotta e senza la suddetta maniglia non si potea serrare atteso che lo pertuso che stava nello stantaro della porta fu trovato cavato di modo tale che non si poteva serrare così parimenti la serratura della detta porta stava ristretta ed ammaccata in modo che la traversa non si poteva fare entrare nè chiavatura e dunque la porta non si poteva serrare. Il giudice ringraziò il Mastrodatti e senza indugi chiamò a deporre Silvia, la cameriera personale di Maria Avalos che conosceva ogni piccola piega dell’animo della sua signora. Il giudice la invitò a riferire alla gran Corte che cosa avesse sentito o visto quella notte. Verso le undici di sera la principessa mi chiamò e mi chiese di portarle una camiscia di ricambio perché quella che aveva indosso era tutta sudata. Mentre la aiutavo ad indossare una camiscia con un collaretto seta negra prese la lampada accesa e la pose sul davanzale della finestra che dava sulla piazza. Mi disse che aveva fatto brutti sogni. Così anche io me ne andai a dormire ma fui subito risvegliata da strepiti, grida soffocate, rumori e grida. Percepii una voce che ripeteva in maniera ossessiva le stesse parole: corna in casa Gesualdo, corna in casa Gesualdo. Lasciatela a me. Lasciatela a me. E la voce flebile della signora che pregava “dammi solo un po’ di tempo per confessare i miei peccati, un attimo di silenzio poi ancora grida: non credo che sia morta non credo che sia morta. Le guardie mi hanno trovata ancora lì dietro quella porta che non ho avuto il coraggio di aprire. Il giudice dichiarò chiusa questa fase processuale e dopo una breve sospensione tornò in aula ed emise la sentenza che molti si aspettavano: “non luogo a procedere nei confronti del principe per avere agito a difesa del suo onore. Carlo usciva dalla triste vicenda ma marchiato a fuoco dal giudizio popolare che invece assolveva la triste regina con due matrimoni finiti prematuramente e l’ultimo tragicamente. Presto la leggenda si impadronirà di lei e la trasformerà nella raffigurazione romantica di una vittima d’amore rendendola sempre più simile a Francesca da Rimini. Di converso la figura di Carlo esce molto ridimensionata sotto il profilo umano per non aver saputo capire quel bisogno d’amore di Maria assolutamente assorbito dalla sua più autentica passione, la musica. Giovanni Iudica analizza molto bene l’incomprensione prima e il tradimento di Maria. Anche nella sua famiglia si praticava la musica soprattutto da parte del nonno. Ma nessuno era andato al di là di un semplice divertimento o innocente desiderio di esibire la propria cultura musicale. Invece per Carlo era l’unico rimedio contro le mal du siecle dell’epoca una sorta di melanconia un misto tra irrequietezza e introversione, un indefinito senso di disagio. Carlo amava Maria ma l’aveva posta su un piedistallo come si fa con le statue, lusingato dell’ammirazione degli altri verso questo oggetto di desiderio da sublimare in musica. Maria invece voleva essere una donna vera, vivere quella giovinezza che non aveva avuto e amare l’uomo che lei e non i genitori avevano scelto per lei. “ Maria capiva che la musica per Carlo era invece qualcosa di molto diverso: era disciplina, studio, mestiere, passione, rifugio, ragione di vita, qualcosa di totalizzante che impregnava l’intero essere, l’intera essenza“. Capiva che non c’era spazio per lei e volle andare deliberatamente verso la morte. Per secoli i napoletani hanno sentito la sua voce o il suo lamento o il suo canto. Poi il tempo ha fatto crollare l’ala del palazzo deserto e la voce di Maria si è spenta per sempre.
Maria D’Avalos nella tradizione popolare. Un quadro esposto nella chiesa di San Domenico maggiore raffigura Maria in abito verde, alta capelli biondi avvolti da un velo scuro, mani affusolate che stringono un libricino di preghiere, occhi neri e profondi. Ci sarebbe stato un primo tentativo di combinare il matrimonio tra Carlo e Maria ma il papa avrebbe negato la dispensa necessaria in quanto cugini di primo grado. Maria invece sposa Federico Carafa ma dopo soli tre anni, nel 1578, rimane improvvisamente vedova e con due figli, Federico e Beatrice Carafa. La gente mormora su questa morte improvvisa. Il fratello del padre, Carlo D’Avalos si dichiara “attonito” per una morte così improvvisa di un giovane “prosperoso” in piena salute e senza alcun male apparente. Silvio ed Ascanio Corona, approfittando dell’anonimato, con un testo che ebbe larga fortuna,”Successi tragici ed amorosi occorsi a Napoli”raccolgono un bel po’ di spazzatura su Maria che solo perchè bella viene imprigionata nel clichè della donna ammaliatrice e peccaminosa, una sorta di mantide religiosa.Una costruzione che si poggia solo sui si dice della tradizione popolare non può assurgere a valore di storia, eppure su questa linea si sono affastellati una serie di particolari ora osceni ora scabrosi che pur non potendo ignorare, decisamente respingiamo non in nome della morale, ma del buon senso. Maria D’Avalos fa ritorno a Napoli ma solo per poco. Forse i D’Avalos sono in un momento di difficoltà economica e vogliono risollevarsi con qualche buon partito : Non solo si sposerà Maria con Alfonso Gioieni, ma anche suo fratello Alfonso con Margherita Gioieni. Insomma un doppio matrimonio forse per risparmiare sulle doti che vennero compensate. Ma i D’Avalos come il loro castello ad Ischia non avevano una buona sorte ed inizia una serie di disgrazie. Prima Alfonso e poi Maria, siamo nel 1586, restano entrambi vedovi. Alfonso il marito di Maria aveva solo 20 anni quando morì molto prematuramente rispetto alla durata della vita media di un cavaliere o di un blasonato dell’epoca che non superava, come fa osservare Borzelli i trentacinque anni. Le corazze di ferro brunito foderato di martore e zibellino ,“le fatiche della guerra, le ferite curate con salassi e veleni della tavola contribuivano ad accorciare l’esistenza dei signori”. Maria oltre alla vedovanza ha dovuto sopportare anche la morte dei due figli di primo letto. Beatrice muore per un’emorragia causata la prima notte del matrimonio dal brutale marito. Nonostante tutto Maria col suo sguardo profondo e il suo volto dal candore diafano come di porcellana conquista Napoli. E’ un innamoramento generale a cui non sfugge il cugino Carlo e quello che non si era potuto realizzare si realizza ora con tutto lo sfarzo possibile ed immaginabile adeguato all’importanza delle due famiglie. Sono tre giorni e tre notti di una festa che resterà impressa nell’immaginario collettivo. Conosciamo anche i regali di nozze che i due sposi ricevono: tondo di perle 49 e smeraldo della rocca vecchia del valore di 1.600 ducati, una mezzaluna di diamanti con tre perle del valore di 1000 ducati, un’aquila di smeraldo e rubini e in aggiunta la contea di Conza. La luna di miele durò poco, troppo poco. Carlo ritorna alla sua antica passione e lascia che Maria frequenti i salotti buoni della città. In cuor suo forse è anche lusingato del fascino che sua moglie di sei anni più anziana di lui e che gli ha dato il tanto atteso erede, sa emanare attorno a sé. Si tratta di una finzione artistica, una sublimazione del reale. Diciamola pure per intero: una pulsione sessuale nobilitata ed ammessa dalla convenzione fin dai tempi di Dante. Anche lo Zio Giulio ne aveva fatto la sua Calliope, un pò meno il suo infido segretario, o previtariello, acquistato nei vicoli di Napoli sottraendolo a dei genitori che ne avevano accentuato la deformità facendolo dormire in una cassettina di legno. I Corona velenosi come al solito riferiscono che lo zio era un frequentatore assiduo di bordelli e proprio qui apprendesse la notizia che ormai era sulla bocca di tutti. Improvvisamente agli occhi del lascivo Giulio si materializzò una figura diversa da quell’ideale che si era formato. O previtariello nascosto dietro una tenda, dovette assister ai turpi tentativi di Giulio che umiliato ed offeso per il rifiuto non risparmiò la nipote di epiteti ingiuriosi. Il nano raccontò tutto al suo signore che ormai non poteva fingere di non sapere o di non aver capito. Doveva necessariamente vendicare l’offesa subita e l’onore offeso e di sua mano, in maniera esemplare. Maria non lo sapeva, ma era già morta. La mano di Carlo che si alza contro di lei, la modalità dei colpi inferti sul volto sono carichi di una brutalità in cui si condensano una molteplicità di sentimenti contrastanti su cui c’è ben poco da dire senza cadere nello psicologismo. Sugli altri particolari, macabri del corpo di Fabrizio dilaniato dalla folla e di quello di Maria abusato da un monaco prima della sepoltura o quello ancora più assurdo che Carlo avesse ucciso anche un altro bambino, frutto della colpevole relazione di Maria diciamo: no grazie ne abbiamo abbastanza sarebbe meglio utilizzare il nostro tempo per capire che cos’è il madrigale e la musica dodecafonica.
La Strega di Gesualdo In un antico documento, seppellito presso l'Archivio di Stato di Napoli si racconta di tal Aurelia d'Errico condannata per stregoneria.
Si legge:
“S’e’ formata l’inquisitione contro Aurelia d’Errico di Gesualdo de li poculi amatorij dati a bere al signor prencepe di Venosa el altre fatture fatteli”
E’ l’anno 1603, il 18 agosto, siamo a Montemarano, tra noceti e nocelleti, un posto dove la cosiddetta “fattura” e’ di casa. Gesualdo e’ sotto la giurisdizione feudale di Carlo Gesualdo principe di Venosa.
Quel tal principe che poi in seguito fara ammazzare, il 16 ottobre 1590, la sua consorte, Maria d’Avalos adultera da tempo ed il di lei amante Fabrizio Carafa, espiando nel suo castello di Gesualdo temendo la vendetta dei parenti dei due adulteri, ma presto verra’ perdonato dalla legge.
Veniamo invece ad Aurelia, che utilizzando elementi naturali, riesce a concupire il principe. Il processo si svolge davanti al magistrato del tribunale feudale. La donna per circa dieci anni ha avuto una relazione con il principe di Venosa.
Il nobile si e’ sposato e l’ha lasciata, cosi’ Aurelia giura eterna vendetta. Il tribunale l’accusa di stregoneria, di “aver dato a bere il suo sangue menstruo al prencipe”.
Le tecniche della fattura, secondo una deposizione ottenuta sotto tortura: Aurelia aveva “pigliato” una fella (offella) di pane et l’ahueua posta dentro la natura sua et untata de quel seme l’haueua data a mangiare in salsa”
I testimoni, riferiscono poi che la donna avrebbe sentenziato: “il prencipe mio sara’ dalla cintura a bascio lo mio, et da la cintura ad alto de la principesa quale solo basij ne potra’ hauer”.
Il principe comincia sentirsi male, e secondo le credenze mediche del tempo miste alla superstizione popolare e le convenzioni culturali dell’epoca che associa il sangue mestruale al veleno che se non si interviene in tempo conduce la persona alla morte sicura, quattro medici immediatamente sottoscrivono quella deposizione: “dicono anco che giudicano l’indisposizione del principe esser soprannaturale causata da bevande noiose et altre fatture poiche’ tanti rimedi naturali appropiatoli non hanno giouatone giouano et che cossi’ dimostano li sintomi”.
La diabolica donna rafforza l’ammaliamento con altri strumenti malefici: le statuette trafitte con chiodi e spilli, “un masco trovato sotto terra auante la portella del castello per doue passaua il prencipe, due ferri con certe monetelle di piumbo dentro un pertuso nel muro del castello, e dentro il masco erano capelli, ungue di morti, et altre forfanterie“:
Sotto un’atrocissima tortura, Aurelia e’ costretta a confessare “hauer dato a bere il menstruo, dato a mangiar la fella del pane, azzuppata del seme del modo ut supra et fatto tutte supradette fatture”.
Non ci e’ dato sapere come finira’ i suoi giorni Aurelia, - il conflitto di competenza giurisdizionale tra le autorita’ ecclesiastiche (il tribunale diocesano di Avellino) e quella civile (il tribunale feudale) dovette sensibilmente ritardare la sentenza del processo e la sua esecuzione.
Il documento apre una finestra su come era il mondo nel Mezzogiorno seicentesco.
La superstizione ed il confine tra la scienza e la magia, un intreccio tra la fattura, l’empieta’, l’eccesso e la trasgressione sessuale.
di Annibale Cogliano
Niccolò LUDOVISI - Nacque a Bologna nel 1610 da Orazio e Lavinia Albergati. Lo zio paterno, il cardinale Alessandro Ludovisi, fu eletto pontefice il 9 febbr. 1621, prendendo il nome di Gregorio XV. Il L., trasferitosi a Roma con i genitori, fu nominato già il 9 marzo seguente governatore di Borgo e poco dopo castellano di Castel Sant'Angelo (carica per la quale prestò giuramento il 17 marzo 1621). Seguì la nomina a castellano di Civita Castellana, piccolo centro a nord di Roma.
Da questi titoli, usualmente assegnati ai nipoti laici dei papi, il L. ricavava rendite cospicue (un mensile di circa 610 scudi solo per la carica di castellano di Castel Sant'Angelo, che esercitò attraverso supplenti). Egli poteva contare anche su una provvigione annuale di 300 scudi d'oro proveniente dall'Università di Bologna e su una pensione di 1000 scudi d'oro dal vescovo di Como. Il pontefice gli assegnò, inoltre, un certo numero di uffici vacabili della Curia romana, che davano rendite stabili. Infine, con un chirografo del 20 apr. 1621, gli fece donazione di tutte le proprietà di cui era entrato in possesso da cardinale.
Le ipotesi di un matrimonio del L. apparvero presto un punto qualificante delle strategie di affermazione della nuova famiglia papale insediatasi a Roma. Nel luglio 1621 sembrava probabile un parentado con una sorella di Pietro Altemps, secondo duca di Gallese, che aveva circa 100.000 scudi di dote, o con una figlia del connestabile Filippo Colonna. Invece, le trattative furono avviate con la famiglia Gesualdo, principi di Venosa. Isabella Gesualdo, infatti, a soli dieci anni di età era una delle eredi più ricche d'Italia, con entrate stimate in più di 40.000 scudi all'anno. I negoziati furono lunghi e difficili, con intensi contatti diplomatici fra Roma, Napoli e Madrid. Fu superata l'opposizione di un ramo della famiglia Gesualdo che avrebbe potuto legittimamente subentrare nella linea di discendenza maschile e fu guadagnata l'esplicita approvazione da parte del re di Spagna Filippo IV. Infine, giunta l'11 apr. 1622 la dispensa per l'età dei due fanciulli (12 anni Niccolò, 11 anni Isabella), il 24 aprile furono firmati gli accordi matrimoniali. Il 1( maggio il nunzio Giovanni Battista Pamphili (futuro papa Innocenzo X) officiò il rito nuziale a Caserta, dove il L. fu rappresentato per procuratorem. La sposa fece il suo ingresso a Roma solo la sera del 23 novembre, accompagnata dalle principali dame dell'aristocrazia romana. Seguì una cerimonia solenne nella cappella Sistina il 30 nov. 1622.
La coppia ebbe una sola figlia, Lavinia, che nacque nel 1628. L'anno seguente Isabella morì, all'età di 18 anni, e il L., contrastando le aspirazioni di un diverso ramo dei Gesualdo a subentrare nella linea ereditaria, ottenne (mediante il pagamento di 42.000 scudi alla Regia Camera di Napoli) l'investitura del principato di Venosa per sé, i suoi eredi e i successori. Presto, per il giovane L. furono avanzate diverse proposte di matrimonio; la scelta cadde su Polissena Mendoza Appiani d'Aragona, principessa ereditaria di Piombino e dell'isola d'Elba, luoghi appartenuti sin dal XIV secolo alla famiglia Appiani e sottoposti alla sfera di influenza degli Asburgo. Il matrimonio fu celebrato nel 1633 e l'anno seguente il L. ricevette dall'imperatore Ferdinando II l'investitura di Piombino (21 apr. 1634); per l'infeudazione egli dovette corrispondere alle casse imperiali un pagamento assai ingente, tra gli 800.000 e 1.200.000 fiorini. A seguito della morte della figlia Lavinia (dicembre 1634), il L. subì tra il 1634 e il 1635 la confisca di Venosa, da parte del viceré di Napoli, Manuel de Zúñiga y Fonseca conte di Monterrey. Il riscatto e la formale acquisizione del patrimonio dei Gesualdo, che comprendeva più di trenta città, terre e casali in diverse zone del Regno (Principati Citra e Ultra), costarono al L. 450.000 ducati. Con Fiano (ereditata dal padre Orazio), Zagarolo (ereditata dal fratello, il cardinale Ludovico nel 1632), Venosa e Piombino, egli governava un ricco insieme di territori, molto articolato, ma certamente di grande importanza dal punto di vista strategico ed economico. Quanto allo schieramento politico, il L. appariva integrato nel sistema di alleanze intessuto in Italia dalla corte di Madrid.
Rimasto di nuovo vedovo nell'agosto 1642 senza avere avuto discendenza - Filippo Gregorio, il figlio avuto da Polissena Mendoza, era morto in fasce - il L. sposò Costanza Pamphili, figlia di Pamphilio e Olimpia Maidalchini e nipote di Innocenzo X, eletto papa il 15 sett. 1644. Le nozze furono celebrate dal pontefice il 21 dicembre e festeggiate con un banchetto tenuto in via eccezionale all'interno del palazzo del Vaticano.
Il matrimonio della nipote del pontefice con il L. era un aperto segnale delle simpatie di Innocenzo X verso il re Cattolico. Il L. ne approfittò per tentare di entrare nel più stretto entourage papale, stringendo legami soprattutto con Camillo Pamphili, nominato prima generale di Santa Chiesa, poi nel 1650 cardinale nipote. La posizione di primo piano del L. apparve evidente in occasione della crisi tra il papa e i cardinali filofrancesi Antonio e Francesco Barberini, nipoti del defunto Urbano VIII. Il L., tra il 1644 e il 1645, moltiplicò le pressioni su Camillo Pamphili, suggerendo l'avvio di una formale messa in stato di accusa dei due cardinali per la gestione dell'Erario durante il precedente pontificato. Tuttavia, le sue trame dovevano scontrarsi con la crescente attitudine del papa a un accomodamento, mentre nuovi impegni lo portavano lontano da Roma.
Il L. fu nominato capitano generale della flotta pontificia il 4 maggio 1645 e ricevette dal papa lo stendardo con le chiavi di S. Pietro nel concistoro del 16 luglio 1645. Non si trattava di un incarico onorifico come quelli avuti in tenera età sotto Gregorio XV, ma di un impiego effettivo: Innocenzo X, dopo l'avvio della guerra tra i Turchi e i Veneziani per l'isola di Candia, aveva deciso di inviare in soccorso dei Veneziani la propria armata navale, insieme con le squadre delle navi fiorentine, napoletane e maltesi. Il L. si imbarcò a Civitavecchia nel luglio 1645 diretto a Messina, dove si sarebbe concentrata l'intera flotta. Quindi, presone il comando, fece vela verso Zante dove si trovavano le galere veneziane. Completato lo schieramento, le navi cristiane si diressero verso il golfo di Suda (a Creta), dove avrebbero stabilito la base: l'obiettivo era assalire la flotta turca in porto alla Canea, ma i preparativi furono troppo lenti e nulla ottennero gli attacchi lanciati il 16 e il 28 sett. 1645. Un ultimo, vano tentativo fu operato il 1( ottobre; quindi le navi pontificie fecero vela per l'Italia e l'8 nov. 1645 rientrarono nel porto di Civitavecchia. L'abbandono della guerra all'inizio dell'autunno fu molto criticato e fece nascere negli osservatori il sospetto che il L. non tollerasse di rimanere troppo a lungo lontano dalla corte pontificia, dove i contrasti con Parigi conoscevano una fase piuttosto acuta.
Il cardinale G. Mazzarino, ministro del re di Francia, appariva deciso a riaprire il confronto per insidiare l'egemonia spagnola in Italia e nel 1646 promosse due spedizioni navali francesi contro lo Stato dei Presidi. La prima iniziativa militare francese (tra maggio e luglio) si spense nel tentativo di conquistare Orbetello, poco più a nord del confine dello Stato ecclesiastico: il L. inviò in questa occasione contingenti armati a sue spese in soccorso degli Spagnoli. La seconda spedizione, a fine estate dello stesso 1646, investì in pieno i possessi del L. e Piombino cadde l'8 ottobre (seguita poco dopo dal presidio spagnolo di Portolongone, sull'isola d'Elba). I Francesi lasciarono il L. nominalmente principe di Piombino, tentando di allontanarlo dalla fazione spagnola di Roma e di consolidare il miglioramento dei rapporti con il papa dopo che, nelle stesse settimane, si erano appianati i suoi attriti con i Barberini; ma il L. si mantenne fedele alla Corona di Spagna, anche al costo di perdite economiche rimarchevoli (valutate in 100.000 ducati annui). Proprio per ribadire la forza dei legami con Madrid, il L. partecipò alla reazione spagnola alla rivoluzione napoletana del 1647, inviando uomini e mezzi finanziari a sostegno di don Giovanni d'Austria viceré di Napoli. Addirittura, il 28 giugno 1648, non essendo a Roma l'ambasciatore di Spagna, il L. si incaricò di presentare al papa l'omaggio feudale per il Regno di Napoli (la cosiddetta chinea).
In virtù della fedeltà al re Cattolico, il 28 apr. 1649 fu infeudata al L. Salerno. Ne scaturirono forti proteste nella città campana, che da circa cinquant'anni era territorio demaniale: il L. poté fregiarsi solo nominalmente del titolo di principe di Salerno. Nell'autunno successivo, nel Regno di Napoli iniziarono i preparativi per la riconquista di Piombino, ancora in mano francese. Le operazioni occuparono i mesi tra maggio e agosto 1650, mentre la Francia era scossa dai disordini della Fronda. Sotto il comando di don Giovanni d'Austria, Piombino e Portolongone furono assediate e conquistate. Il L. inviò all'armata in formazione un contingente di 1000 fanti e 300 cavalieri, che parteciparono alle operazioni: un'ulteriore prova di servizio per la Corona di Spagna allo scopo di superare le opposizioni a un definitivo insediamento come signore feudale di Salerno. Gli sforzi furono vani. Il 6 giugno 1651 la giunta di Stato madrilena risolse in favore dei ricorrenti e, pur ricordando i meriti del L., decise di lasciare Salerno nelle terre demaniali del Regno di Napoli. Il L. tentò ancora nel 1653 di ottenerne l'investitura, insieme con i risarcimenti per l'occupazione francese di Piombino: le richieste non ebbero però alcun esito. L'incidente non inficiò i rapporti tra il L. e la Corona di Spagna: nel giugno 1654 il L. ostacolò vivamente le intenzioni di Innocenzo X di ammettere alla corte pontificia l'ambasciatore di Portogallo (Regno sottrattosi al dominio spagnolo nel 1640). Giunse al punto di lasciare Roma e di ritirarsi nel feudo di Zagarolo, donde fu richiamato al momento della malattia e morte del papa. Quindi, nel 1655, ricevette la massima onorificenza spagnola, il Toson d'oro.
Il L. fu altresì impegnato in incarichi di governo per il re Cattolico. A partire dal maggio 1659 fu luogotenente e capitano generale d'Aragona; l'anno seguente viceré dello stesso Regno. Oltre all'impegno nelle funzioni amministrative e giudiziarie, il L. fu a lungo occupato dai problemi legati alla smobilitazione delle truppe (dopo la pace dei Pirenei con la Francia, nel 1659) e ai preparativi militari per la riconquista del Portogallo. Quindi, il 7 luglio 1661 ricevette la nomina a luogotenente e capitano generale della flotta di galere di Sardegna. Seguì, il 5 luglio 1662, quella a viceré di Sardegna.
Il L. giunse ad Alghero nel novembre 1662. Dopo qualche settimana di sosta a Sassari, prestò giuramento il 21 febbr. 1663, a Cagliari. Trovò esauste le casse dell'isola e dovette addirittura ricorrere al suo patrimonio per provvedere alle spese per la difesa. Si occupò altresì di vigilare sul movimento di navigli olandesi e di Amburgo, ormai molto attivi in Mediterraneo.
Il L. morì a Cagliari il 25 dic. 1664.
Dal matrimonio con Costanza Pamphili aveva avuto quattro figli: Giovan Battista, che ereditò i domini familiari, Lavinia (moglie di Girolamo Acquaviva, duca di Atri), Olimpia (monaca) e Ippolita. Da quest'ultima, sposata nel 1681 a Gregorio Boncompagni, prese vita il lignaggio Boncompagni Ludovisi. Nel testamento, il L. lasciò ai gesuiti una somma di 10.000 scudi per la continuazione della fabbrica della chiesa romana di S. Ignazio, edificata sotto il patronato del cardinale Ludovico Ludovisi e aperta al culto nel 1650.
Alla morte del fratello cardinale (1632), il L. aveva ereditato la raccolta d'arte, ricca di dipinti e di statue antiche. I collezionisti se ne erano subito interessati; tuttavia, nonostante fosse nota "la necessità nella quale si trova[va] il principe Ludovisio" (G. Mazzarino a P. Maccarani, 23 ott. 1641, cit. in Le Pas de Sécheval, p. 70), egli aveva resistito alle prime offerte. Preferì donare a Filippo IV l'Adorazione di Venere e i Baccanali di Tiziano. Nuove proposte d'acquisto - stavolta riguardo villa Ludovisi, i dipinti colà esposti e "le altre galanterie che in essa si contengono" (ibid.) - furono avviate nel febbraio 1642 per conto del cardinale Richelieu, ministro del re di Francia. I prezzi richiesti furono giudicati eccessivi e l'affare non si concluse: la collezione Ludovisi si sarebbe dispersa solo alla morte del L., a causa delle vendite effettuate dal figlio Giovan Battista.
Il L. non riuscì a portare a termine il progetto di un nuovo palazzo familiare a Roma. Con un forte contributo di Innocenzo X (di 100.000 scudi), egli aveva acquistato nel 1653 dal cardinale Luigi Capponi un edificio posto dietro la chiesa medievale di S. Biagio (nel rione Colonna). Quindi, aveva acquistato le case limitrofe con l'intenzione di demolirle e di edificare una grande residenza. Gian Lorenzo Bernini fu incaricato del progetto, ma i lavori proseguirono lentamente: alla morte di Innocenzo X (nel 1655) erano state iniziate le ali, trascurando il centro della facciata; solo l'ala destra era stata coperta e completata. Nella pianta di Roma di Giovan Battista Falda (1676), palazzo Ludovisi appare come cantiere aperto, con i lavori interrotti: alla fine del Seicento il sito verrà scelto per edificarvi la cosiddetta Curia innocenziana (l'attuale palazzo Montecitorio).
Fonti e Bibl.: Biblioteca apost. Vaticana, Boncompagni-Ludovisi, E.101-106 (corrispondenza del L. con la corte di Spagna per il periodo 1660-64); Arch. segr. Vaticano, Archivio Boncompagni-Ludovisi (documenti relativi ai possessi feudali del L.); G. Pillito, Memorie tratte dall'Archivio di Stato in Cagliari riguardanti i regi rappresentanti che sotto diversi titoli governarono l'isola di Sardegna dal 1610 al 1720, Cagliari 1874, pp. 109 s.; Die Hauptinstruktionen Gregors XV(, a cura di K. Jaitner, Tübingen 1997, ad ind.; A. Guglielmotti, Storia della Marina pontificia, VIII, La squadra ausiliaria della marina romana a Candia e alla Morea, Roma 1893, pp. 13-42; A. Le Pas de Sécheval, Les collections Ludovisi et la politique artistique royale française au XVIIe siècle(, in Revue de l'art, 1991, n. 94, pp. 69-73; D. Cosimato, N. L. mancato principe di Salerno: Napoli-Roma-Madrid, 1649-1653, Salerno 1992; C. Costantini, Fazione urbana: sbandamento e ricomposizione di una grande clientela a metà Seicento, Genova 1998, ad ind.; La nobiltà romana in età moderna. Profili istituzionali e pratiche sociali, a cura di M.A. Visceglia, Roma 2001, ad ind.; A. Karsten, Künstler und Kärdinale. Vom Mäzenatentum römischer Kardinalnepoten im 17. Jahrhundert, Köln-Weimar 2003, p. 66. G. Brunelli
da DIZIONARIO BIOGRAFICO TRECCANI on line
Niccolò LUDOVISI a Gesualdo
Alla morte di Carlo Gesualdo, a succedergli nel titolo di Signore di Gesualdo, fu Niccolò I Ludovisi, Principe di Piombino che nel 1632 sposò Isabella Gesualdo, figlia di Emanuele Gesualdo (figlio sfortunato del Principe Carlo, morto per una caduta da cavallo nel 1609). Niccolò I Ludovisi continuò ed arricchì l’opera edificante di Carlo Gesualdo, come testimoniano le lapidi di pietra presso i conventi dei Domenicani e dei Cappuccini, gli antichi stemmi che si trovano sopra la porta secondaria della chiesa di San Nicola e sopra l’ingresso del convento dei Cappuccini e il dipinto sulla volta a crociera dell’ingresso del castello.
La presenza del Ludosivi, meno osannata rispetto a quella del suo illustre precedessore, fu senza dubbio determinante nella crescita urbana e sociale di Gesualdo. Per volere del Ludovisi Gesualdo cambiò radicalemente aspetto con l'originaria struttura urbanistica di paese-fortezza radicalmente cambiata grazie alle influenze dell'architettura urbanistica rinascimentale che gli illuminati signori introdussero. I Ludovisi promossero lo sviluppo urbanistico intorno al castello con l'edificazione di numerosi palazzi e alloggi per la servitù creando quella ancora oggi denominata cittadella, quindi favorirono la nascita del borgo fuori dalla rocca fortificata. A Niccolò Ludovisi si deve il completamento delle opere intraprese da Carlo Gesualdo e la realizzazione di numerosi altri luoghi di culto ma anche strade, fontane e piazze ancora oggi testimoni dell'epoca d'oro della storia di Gesualdo. Grazie a questo considerevole slancio urbanistico e rilancio sociale, Gesualdo arrivò a contare ben 2538 abitanti, una cifra considerevole per quell'epoca. A Nicolò successe, nel 1658, il figlio Giovanni Battista che, nel luglio del 1682, vendette il feudo per 12.000 ducati a Isabella della Marra, moglie di Girolamo Gesualdo, marchese di Santo Stefano.
da WIKIPEDIA Enciclopedia libera
Nel basso Medioevo guerre, pestilenze e terremoti riducono la popolazione e le risorse.
Il castrum offre protezione, e necessita al tempo stesso di un afflusso continuo di uomini e famiglie da altre terre. Casale I poteri del feudatario e il prelievo fiscale sulla terra debbono pertanto essere non gravosi. Alla fine del ‘500, con la signoria di Fabrizio Gesualdo, padre di Carlo, i diritti feudali sono ridotti al solo obbligo della molitura nei molini baronali di Paterno e Luogosano, e alla giurisdizione civile e criminale.
Poche sono le terre baronali, censuate per modesti canoni, e poche le terre private possedute dal Principe: le Pastene, per meno di 14 ettari. La comunità cittadina ha potuto espandersi dunque economicamente e socialmente attraverso un braccio di ferro continuo con il Signore. Starse numerosissime di Greco e Aglianico, oliveti, colture ortalizie, seminatori arborati, terreni pascolatori, acque abbondanti e clima favorevole, cave di pietra e carcare, una proprietà media diffusa fanno di Gesualdo un giardino produttivo di prim’ordine. Sorga, Torretiello, Laudisio, Danusci, Mattioli, Volpe: sono le famiglie gentilizie a difesa della comunità contro le pretese dei signori feudali. Le stesse famiglie che, sino alla loro estinzione, fra Sette e Ottocento, fronteggeranno le famiglie gentilizie dei Pisapia e Catone, veri e propri serbatoi di agenti feudali.
L’autonomia politica e amministrativa dell’Università, come allora si chiamava il comune, si rafforza ulteriormente nel ’500, il suo secolo d’oro. Le fiere e la Cappella del Corpo di Cristo sono i due istituti che fanno di Gesualdo una delle più fiorenti cittadine della provincia di Principato Ultra sino a metà ‘800.
di Annibale Cogliano.
La lapide all’ingresso della fiera documenta la vittoriosa battaglia ingaggiata dalla cittadina per contrastare la protervia del principe di Venosa Luigi Gesualdo nel voler incamerare per sé i proventi dei mercati cittadini, cosicché si portava avanti un contenzioso in causa Regi Fisci cum universitate Terr(a)e Iesualdi super ostensione tituli quorumdam mercatorum Terr(a)e preditt(a)e ac etiam super pretcritione Ill(llustrissi)mi principis Venusii.
La vertenza si concluse con una sentenza della regia camera della sommaria che fu favorevole ai gesualdini, dopo il superamento di due gradi di giudizio ed ebbe ratifica finale dal Presidente Bernardino di Santa Croce e la trascrizione di Scipione Solimena.
data DIE QUARTO MENSIS XBRIS 1578
Le Fiere tra '500 e '800
Le fiere dell’Annunziata, della Maddalena, dell’Assunta, di S. Croce, di S. Luca, distribuite fra marzo e ottobre, rendono la cittadina un centro commerciale di prim’ordine, snodo per le fiere più grandi di Salerno, Benevento, Foggia. Le fiere non sono semplici mercati dove si vendono merci ai consumatori. Sono luoghi di scambio fra mercanti provenienti da regioni lontane: cereali, bestiame, tessuti, metalli preziosi, utensili da lavoro, lane, cuoi e pelli lavorate, vino, ed altre merci si presentano, si acquistano e si pagano solitamente nella fiera successiva. Un territorio collinare di oltre 45 ettari accoglie mercanti, animali, visitatori. L’esteso bosco di Migliano di Frigento, come da tradizione antichissima, offre gratuitamente erba ed acqua agli animali in transito.
Ordine pubblico e magistrature fieristiche
L’ordine pubblico è assicurato negli itinerari e strade d’accesso da milizie provinciali, da armigeri, dal controllo dei passi e delle strade, da salvacondotti, ecc. Un grande recinto rettangolare funge da unico fondaco protetto: oltre 3400 metri quadrati, con circa 140 baracche-punti vendita al suo interno. Le merci comprate e acquistate hanno particolari franchigie, ossia esenzioni totali o parziali di dazi e gabelle. Notai autorizzati dal tribunale della Provincia, l’Udienza di Montefusco, accertano le lettere di cambio nei giorni che precedono la fiera e ne roborano gli atti durante lo svolgimento. Un mastro di fiera nominato dai locali amministratori esercita la giustizia civile e criminale durante il suo svolgimento, cura l’ordine pubblico con milizie provinciali o con i cosiddetti mazzieri, uomini che per l’occasione svolgono funzioni paramilitari. Il mastro di fiera controlla i prezzi, la qualità del foraggio e degli alimenti somministrati nelle taverne e annota in un registro coloro che sono ospitati dai privati. Un’epigrafe del 1578 sul portone principale d’ingresso del recinto fieristico ricorda la battaglia vinta dall’Università contro le pretese del principe Fabrizio Gesualdo a mettervi le mani.
Strutture recettive e accoglienza dei forestieri
Pagliai-trattorie danno cibo e ristoro agli avventori. Case private e numerose taverne urbane e rurali accolgono mercanti, garzoni, merci, e offrono stallaggio agli animali. Insieme ai mercanti giungono artigiani, prestatori di danaro, artisti, ciarlatani, giocolieri, manovali, scapoli in cerca di moglie e gente in cerca di fortuna. Gesualdo è cittadina aperta, i forestieri sono benvenuti: i cognomi locali sono i cognomi di quasi tutte le regioni meridionali e delle città più mercantili e produttive del Regno, nonché di ebrei espulsi dalla Sicilia e dalla Spagna a fine ‘400; i toponomi Toppolo dei Greci, Fontana degli Schiavoni, Torre dello Schiavo ancora oggi ricordano l’insediamento di greci, albanesi, slavi
Dizionario geografico--storico--statistico de' comuni del regno delle Due Sicilie Di Achille Moltedo, 1858
Gesualdo. Comune della provincia di Principato ulteriore, nel circondario di Frigento, distretto di S. Angelo dei Lombardi, diocesi d'Avellino, con 3405 abitanti. Vi si tiene un mercato in ogni giovedì, e cinque annue fiere dette dell'Annunziata da'21 ai 25 marzo, della Maddalena da'14 a' 17 luglio , di Napoleone da' 12 a'16 agosto, della S. Croce da' 10 a' 13 settembre, di S. Luca da' 14 a' 18 ottobre. È distante 57 miglia dal mare, 49 da Napoli, uno da Frigento, 8 da S. Angelo, e 21 da Avellino.
1. Dizionario geografico-ragionato del regno di Napoli Di Laurent Justinien, 1802
GESUALDO, terra, in provincia di Principato ulteriore, in diocesi delta città di Frigenio , dalla quale è lontana un miglio in circa, e 12 da Montefuscolo. Ella è in oggi abitata Ha 3700 individui . La tassa del 1532 fu di 227 fuochi (1), del 1545 di 302, del 1561 di 343, del 1591 di 424, dei .648 dello stesso numero, e del 1069 di 204. Mancò di 904 fuochi a cagion della peste del 1656". Questa terra si vuole surta a tempi Longobardi , e da un tal Gesualdo, fondatore prese il suo nome , il suo territorio è atto a tutte le produzioni di prima necessità. E infatti visi raccoglie del grano, granone, vino e olio . Non vi manca dell' acqua , e vi si coltivano perciò gli erbaggi, e non ci mancarlo altre specie di frutta. Sonovi pure dei luoghi per Io pascolo degli animali, e trovasi della faccia de' lepri, volpi , e di più specie di pennuti feconda la loro stagione. La situazione del paese è in luogo eminente , ove respirasi buon' aria, Qui abitanti sono addetti all' agricoltura, ed alla pastorizia per la massimi parte, ed alla negoziazione delle loro soprabbondandi derrate. Si possiede in oggi dalla famiglia Caracciolo , de' principi della Torella.
2. Dizionario tascabile di geografia universale: compilato ad uso delle scuole Di B. E. Cressoni, 1804
Gesualdo. Grosso borgo d'Italia nel regno delle Due Sicilie, Stati di terraferma, prov. di Principato Citeriore con 5mi. abit. dediti alla pastorizia ed alla agricoltura.
3. Notiziario delle particolari produzioni delle province del regno di Napoli ... Di Vincenzo Corrado, 1816
Della Terra di Gesualdo
Alle vicinanze di Avellino sta Gesualdo. Nel suo adiacente terreno si trova la cava di marmo alabastro giallastro. Più di cosi non v' ha di particolare.
4. Istorica descrizione del regno di Napoli ultimamente diviso in quindici ... Di Giuseppe M. Alfano, 1823
Gesualdo Città sopra una collina , d'aria sana , Dioc. di Frigento , un miglio distante da detta Città, e 11 da Montefusco, feudo di Caracciolo Torella. Si vuole edificata circa il VII. secolo da Gesualdo Longobardo. Produce grani , grani d’india, frutti, vini, oli, ortaggi, e pascoli. Fa di pop. 3751.
5. Corografia dell'Italia di G. B. Rampoldi, 1833
GESUALDO o GESUADO, borgo murato, posto sopra alto colle nella pror. di Principato ulteriore, disi, di Santangelo de' Lombardi, 3 miglia a libeccio da Frigento, dal di cui cantone dipende, ed altrettante a levante da Fontanarossa. Ha due chiese collegiate, e conta quasi 4,000 abitanti. I suoi dintorni sono rimarchevoli per una cava di alabastro, dalla quale si trassero molte belle colonne pel reale palazzo di Caserta; ossi poi sono fertili di cereali, ed abbondano di vili, di gelsi e di ulivi; vi si tengono quattro annue fiere.
6. Storia della cattedra di Avellino e de' suoi pastori Di Giuseppe Zigarelli, 1856
IX. Gesualdo. É esso comune di 2.a classe nel circondario di Frigento, dalla cui diocesi una volta anche dipendeva, distretto di s. Angelo de' Lombardi, dal quale dista miglia 8, e da Avellino capo della provincia 21.— Autorevoli scrittori lo vogliono edificato presso il torno del secolo VII, da un tal Gesualdo di stirpe longobarda, ma nativo di Benevento, e balio di Romualdo I duca di questa città.—Il suo fabbricato è posto a ridosso di una collina, e l'aria che vi si respira è salubre: di questo paese tenne lodevole menzione l'egregio abate Giacomo Catone, suo naturale, nelle Memorie Gesualdine; dalle quali rilevasi pure la serie de' suoi signori, e varii di loro ancor principi di Venosa, e conti di Conza; e segnatamente un Guglielmo Gesualdo, che ebbe a suffeudatario Odo I di Bonito nel 1141 ; un Elia Gesualdo, che soggiunge il Di Meo nei suoi Annali, di aver proceduto all'arresto della imperatrice Costanza in Salerno, e di averla spedita al re Tancredi in Palermo nel 1191; un Niccolò Gesualdo assai accetto a Carlo li d'Angiò, il quale, in confermargli la sua signoria nel 1299, gli testifica la propria gratitudine per i buoni uffici resi al padre dal di lui genitore, non meno che per le ingenti somme prestategli nel 1266 per lo acquisto del regno e finalmente un Luigi Gesualdo, che impalmata Isabella Ferrella, la quale acquistò nel 1549 dal Gran Capitano Consalvo di Cordova la signoria di Venosa, fu padre di sette figliuoli, tra cui Alfonso, che fu poi cardinale, vescovo di Albano e di Ponto, e quindi arcivescovo di Napoli nel 1596. E perciò i feudatari stessi, e dopo loro anche i principi di Piombino, Fondi, e Torella, delle case cioè Ludovisio, Sangro, e Caracciolo, che tennero egualmente il dominio di Gesualdo, vi aveano un forte castello, che formava la loro ordinaria dimora; castello che per la solidità delle sue fabbriche e per la cura che vi spendeano i proprii signori fa ancora vaga pompa di sé, ed è nella sua interezza , tra i monti del Principato Ulteriore, tranne il piano superiore che presenta qualche fenditura per l'orrendo tremuoto del 1658, che cotanto afflisse e desolò i luoghi della nostra provincia e della Basilicata; castello finalmente che posto nella parte più eminente del paese, in tempo dei guerreschi attriti baronali, e delle successive dominazioni straniere, accenna al certo a non pochi fatti; del pari che gli altri tutti dello stesso Principato Ulteriore, in diversi punti disseminali e dispersi. Si tengono in Gesualdo quattro fiere, e sono tra le principali della provincia, le quali hanno luogo in luglio, agosto, settembre, ed ottobre, oltre ad un mercato settimanale Del martedì , ed altra fiera in ogni 25 marzo. La sua chiesa madre serba moltissime reliquie di santi, ed il corpo di S. Fortunato martire, traslalato da monsignor Novi Ciavarria nel 1835. Ha due insigni collegiale, delle quali, come vedremo, ignorasi l'epoca della fondazione ed erezione, sotto de' titoli di S. Niccola di Bari principale patrono del luogo , e di s. Antonino martire, che vestono le medesime insegne di s. Giovanni maggiore , tranne l'arciprete, che, per singoiar privilegio, indossa la cappa instar Cothedralium. La prima è composta di undici individui, due dignità, cioè il detto arciprete con cura di anime ed un primicerio, e nove canonici, cinque di prim'ordine e quattro di secondo: l'altra è composta di nove , quattro cioè maggiori, tra i quali un abate curato, e cinque minori. Dagli statuti di dette collegiate, riformati d'ordine di monsignor Procaccini nel 1715, ricaviamo che non è a memoria d'uomo la loro fondazione ed erezione; non essendosi rinvenuto documento alcuno né negli archi vii, né nella curia.— E di vero la loro antichità e preeminenza su tutte le altre corporazioni ecclesiastiche della soppressa diocesi di Frigento, l'abbiamo dai sinodi dei passali vescovi, e singolarmente da quello di monsignor Leone nel 1758; le quali collegiate erano le sole che con croci inalberate, in simili congiunture, entravano processionalmente in quella cattedrale; e quando nella stessa l'Ordinario celebrava la solenne messa del sinodo, l'arciprete gli faceva da diacono. La medesima cosa è da osservarsi intorno alle loro chiese, mentre per quella di S. Niccola, che un tempo aveva anche il suo succorpo con l'altare del Presepe, oggi di singolar maestà e bellezza, avente pure un superbissimo quadro della cena di N. S., ed un magnifico battistero di marmo; rilevasi dai mentovati statuti essere stata forse fondata ed eretta dagli antichi signori del luogo, e da altri successori e benefattori ampliala e restaurata, come dalle lapide segnatamente del 1533 e 1629, in essa erette, e dall'altra del 1760 sulla porta maggiore.
L'altra chiesa collegiale di s. Antonino martire di forma gotica è del pari antica, e vedesi dipinta ne' muri; ma, perchè posta fuori dell'abitalo al luogo detto Le colonne, e minacciante imminente mina , si credette opportuno dall'abate , ed altri del collegio, uffiziare nell'altra chiesa di s. Maria della Pietà, eretta e dotata, come dalla iscrizione corrispondente, dal principe di Piombino Niccolò Ludovisio nel 1642, in suffragio dell'anima di sua consorte Polissena Mendozza; il qual passaggio segui col consenso del feudatario e del comune, e con l'approvazione di monsignor Torti Rogadei, come dal suo decreto in S.Visita del 24 maggio 1731, riportato dal suddetto Catone. É notabile ancora in essa terra una terza chiesa sotto la invocazione di s. Maria degli Afflitti, costruita nel 1612, e dichiarata da monsignor De Rosa nel 6 maggio i8oocoadjutrice delle dette due parrocchie, come dagli alle pure, di s. Visita. Non bisogna tiasandare poi che erano in Gesualdo un bellissimo monastero dei pp. Celestini, che vuolsi edificato da un vescovo dell'Ordine, e due conventi di Domenicani e Cappuccini; e quest' ultimo avendo corsa la stessa sorte degli altri due soppressi nel 1807 e 1809, fu però il primo nel Principato Ulteriore ad essere ripristinato al ritorno di Ferdinando I da Sicilia, nel 1815 le superstiti chiese sono ammirabili per bellezza dell' architettura, sceltezza di marmi nella più parte degli altari, e maestrìa di pennello in alcuni quadri, segnatamente quello di s. Tommaso d'Aquino Del ss. Rosario, non che per le ottime antiche statue che posseggono; ed il tutto è opera, come dai rispettivi stemmi, non solo della pietà e munificenza dei principi Carlo Gesualdo e Niccolò Ludorisio, nipote di Gregorio XV, ma benanche di varie principali famiglie che vi stabilirono delle cappelle gentilizie, tra le quali Damiselo ora estinta. Enumera inoltre Gesualdo un monte frumentario per sollievo de' bisognosi, instituito da monsignor Lattila nel 1764; come ancora due confraternite assai antiche, sotto le invocazioni dell'Addolorata e dei Morti, non che del ss. Rosario; e finalmente tre benefici di regio patronato, cioè di s. Giovanni a Baccone, s. Onofrio, e s. Caterina. Ci resta egualmente a notare che la terra medesima nel 1532 venne censita per fuochi (1) 227 , nel 1545 per 302, nel 1561 per 343, nel 1591 per 4241 nel 1648 per lo stesso numero, e nel 1669 per 204; scemando in tal guisa più della metà a causa della peste del 1656. Ora la sua popolazione monta a 3268 anime.
7. Dizionario geografico--storico--statistico de' comuni del regno delle Due Sicilie Di Achille Moltedo, 1858
Gesualdo. Comune della provincia di Principato ulteriore, nel circondario di Frigento, distretto di S. Angelo dei Lombardi, diocesi d'Avellino, con 3405 abitanti. Vi si tiene un mercato in ogni giovedì, e cinque annue fiere dette dell'Annunziata da'21 ai 25 marzo, della Maddalena da'14 a' 17 luglio , di Napoleone da' 12 a'16 agosto, della S. Croce da' 10 a' 13 settembre, di S. Luca da' 14 a' 18 ottobre. È distante 57 miglia dal mare, 49 da Napoli, uno da Frigento, 8 da S. Angelo, e 21 da Avellino.
8. Dizionario di geografia universale ...: preceduta da brevi preliminari ... Di Francesco Constantino Marmocchi, 1858
Gesualdo (Geogr. statistica) — Borgo dell'Italia meridionale (regno di Napoli), nel Principato Ulteriore, distretto di Sant'Angelo de' Lombardi, circondario di Frigento. Possiede due chiese collegiate.— Annualmente vi si tengono Fiere. — È distante 13 km. da Sant'Angelo de' Lombardi, al nord, e 3 da Frigento, all'ovest.— Popolazione: 3,900 anime.
9. Dizionario topografico dei comuni compresi entro i confini naturali dell'Italia Di Attilio Zuccagni-Orlandini,1861
Gesualdo (Napoli) Prov. di Princip. Ult.; circond. di S. Angelo de'Lombardi; mand. di Frigento. In sito alpestre, ma con territorio molto fertile e di aria salubre, torreggia Gesualdo in un monte, sulla cui cima sorge l'antico castello con torri, e al di sotto sono distribuite circolarmente le abitazioni. Popol. 3453.
(1)
“Nella numerazione dei fuochi (il fuoco era il camino intorno al quale si raccoglieva la famiglia, l'antico sistema di censimento dei fuochi serviva per documentare il numero di famiglie presenti sul territorio che dovevano pagare le tasse)
l Volo dell'Angelo di Gesualdo di Giovanni Fulcoli
(Tratto da: Periodico trimestrale VICUM (Settembre - Dicembre 1993) Organo dell'Associazione "P.S. Mancini" - Trevico)
Contrariamente a quanto si possa pensare o credere, il volo dell'Angelo è relativamente recente, ed anche se, allo stato attuale, non è possibile indicarne con precisione l'anno di nascita, è possibile però farlo risalire alla metà del XIX secolo.
Utile per questa ricerca cronologica poteva risultare la lettura del diario del Canonico don Giuseppe Forgione, pubblicato di recente. Le notizie che vi si trovano, però, non sono molto chiare... alla data di sabato 22 settembre 1860, infatti, si legge della festa in onore di S. Vincenzo in questi termini: "La Congrega del Rosario ha celebrato la solita festa di San Vincenzo con la solita illuminazione del catafalco fino alla piazza con le scene di passo in passo".
Che cosa sono "le scene di passo in passo"? Per "catafalco", don Giuseppe intende riferirsi al palco su cui oggi recita il "diavolo" o quello su cui allora forse recitava "l'angelo", perché non si era ancora pensato di utilizzare la fune? Non è possibile rispondere con certezza a questi interrogativi, né la descrizione che si legge sotto la data di domenica, 23 settembre, serve a dare maggiori delucidazioni. Qui, infatti, si legge che "...si è onorato il santo con l'orazione panegirica... la solita processione con un lungo sparo di mortaretti...", ma non si fa parola del dialogo tra l'angelo e il diavolo.
La data di nascita, perciò, della manifestazione più famosa di Gesualdo, per il momento, è destinata a conoscersi solo in modo approssimativo, potendola far ricadere tra il 1833, anno in cui si costituì il primo contratto-festa, e il 1876, anno in cui si spezzò la fune su cui era legato l'angelo.
Per la festa di San Vincenzo, invece, è possibile indicare con precisione la data di nascita. Infatti, è giunto fino a noi un manifesto del 1922, anno in cui, nei giorni 24, 25, 26 e 27 agosto, si celebrò il centenario di questa festa.
1822 dunque è la data in cui bisogna far risalire la prima manifestazione in onore del Santo Taumaturgico. Il giorno ed il mese non erano fissi, perché tutto allora dipendeva dal lavoro dei campi. L'agricoltura, infatti, risultava l'attività condizionante del paese, tant'è che la stessa Confraternita del SS.mo Rosario si scioglieva da giugno a settembre, "ricorrendo mesi di fatiche e di raccolti", per cui la Chiesa restava abbandonata per l'impossibilità di essere frequentata.
In epoca anteriore a questa data non vi è un solo documento che citi questa festa, eppure nei verbali della Confraternita, che pure esistono e che ho potuto leggere, sono segnati con meticolosa precisione tutte le attività della stessa con l'indicazione di tutte le spese in entrata ed in uscita.
Una ulteriore prova e conferma, che precedentemente la data del 1822 non era stata mai organizzata la festa di San Vincenzo, si potrebbe avere dal secondo articolo delle Regole della Congregazione, approvate dal re nel 1757. In questo articolo, infatti, si elencano i doveri dei confratelli relativamente alle processioni "che si faranno dai PP. Domenicani", e si dice, fra l'altro, che la Confraternita è tenuta a partecipare alla "Processione di San Domenico e San Vincenzo se mai si facesse". Ciò vuol dire che non tutti gli anni San Vincenzo era portato in processione per il paese, e se non c'era la processione, in quel periodo che giustamente si badava più alle manifestazioni di culto che a quelle civili, non poteva assolutamente esserci la festa di San Vincenzo e quindi la manifestazione del volo dell'angelo.
Assodato, dunque, che l'atto di nascita della festa risulta essere il 1822, vengo a descrivere come la si organizzava nei primi anni e quale fu il primo comitato festa.
Interessantissimo, a tale scopo, è il verbale della Congregazione del SS.mo Rosario del 26 maggio 1833, che perciò riporto integralmente.
VERBALE DEL 26 MAGGIO 1833
L'anno 1833, il giorno 26 maggio, in Gesualdo, riuniti i Confratelli della Pia e Venerabile Congregazione sotto il Titolo di S. Maria del Rosario, il Fratello Priore Don Giuseppe Catone ha proposto ai Fratelli che da più anni erasi promossa da più Fratelli la festività del glorioso S. Vincenzo Ferreri, e che tale festività si celebrava ordinariamente nel mese di agosto con le volontarie offerte che si facevano dai Fratelli, dalle Sorelle e dai Devoti di detto miracoloso Santo, consistente in grani, coni di grano e manipoli di grano, lupini e simili generi; che con tali offerte si solennizzava una festività in onore di esso Santo con molta pompa, musica, sparo, illuminazione, Processione, primo e secondo Vespero cantato e Messa con l'assistenza come si è praticato negli altri anni passati.
Finalmente esso Priore, ad oggetto di assicurare esse offerte volontarie e per bene regolarizzare le spese di esse festività a cui non può il solo Priore assistere, ha creduto utile e necessario portare all'avviso dei Fratelli congregati, prima che si chiuda la Congregazione per le fatiche di campagna che cominciano dalla metà di giugno e durano a tutto il mese di settembre, la nomina di sette deputati, i quali avranno la cura di raccogliere le offerte suddette, e nel giorno della Festività, che sarà da esso Priore fissata in un giorno di agosto; esse offerte saranno raccolte davanti la Chiesa e dentro la Chiesa, e del quantitativo sarà fatto rapporto ad esso Priore per potersi disporre la vendita di tanto grano quanto necessita per soddisfarsi la somma erogatasi per la Festa a chi si è compiaciuto anticiparla quindici giorni prima di essa Festa.
I deputati che si propongono sono i seguenti Fratelli: PIETRO ALDORASI fu NICOLA, ANGELO D'ONUFRIO, ANDREA SOLOMITA, VINCENZO COGLIANO di FRANCESCANTONIO, CARMINE NOCERA, SABBATO VENUTA, DON ANDREA PISAPIA.
Ben inteso che essi deputati dovranno antecedentemente formare con esso Fratello Priore lo stato approssimativo delle spese che si stimeranno necessarie a farsi con una discreta economia, conciliando la devozione verso il Santo, la soddisfazione dei devoti con il culto, che devesi a Dio Onnipotente ed alla Madre SS.ma di Gesù Cristo sotto il titolo del SS.mo Rosario, che è quello della nostra Congregazione.
Beninteso altresì che fra le prime spese devono contarsi la compra di 600 figure del Santo di varia qualità, la cera, la celebrazione di tre Messe lette o più se potranno aversi nel giorno di esse festività che andranno a beneficio dei benefattori, devoti e serviranno a dar comodo ai fedeli di sentirsi la Messa nella nostra Chiesa.
I sottonotati Fratelli nel numero 29 ad uniformità di sentimenti e voci hanno approvato la proposta suddetta nel modo spiegata da esso Priore.
Fatto, letto e sottoscritto oggi sopradetto giorno, mese ed anno nella Sacrestia della Chiesa del SS.mo Rosario, addetta alla riunione dei Fratelli e alle deliberazioni della Congrega.
IL FRATELLO PRIORE
GIUSEPPE CATONE
+ PRIMO ASSISTENTE ANTONIO SOLOMITA fu DOMENICO
+ SECONDO ASSISTENTE SAVERIO ALDORASI
IL SEGRETARIO
DOMENICO D'ONUFRIO
ELENCO DE' PROCURATORI DELLA FESTA
Centenario di S. VINCENZO FERRERI
da celebrarsi ne' giorni 24, 25, 26 e 27 agosto corr. anno 1922
in GESUALDO
Pisapia D. Vincenzo - Priore
D'Amelio Michele - 1° Assistente
Forgione Alfonso - 2° Assistente
Taurasi Giuseppe - Cassiere
Pinto Angiolo - Segretario
Vicario D. Eugenio - Rettore
Cogliano Giovanni
Pompeo Carmine
Vicario Vincenzo
Savignano Tommaso
Venuto Amabile
Solomita Carmine
Giuseppe D'Amelio di Antonio
Morano Giuseppe
Fulchino Carmine
Nitti Pietro
Pietropaolo Luigi
Fulchini Emanuele
Dragone Antonio
Petruzzi Antonio
Caruso Giovanni di Nunziante
Caracciolo Carmine fu Gennaro
Sessa Generoso
Iannaco Pasquale
Cogliano Carlo
Solomita Vincenzo fu Raffaele
Fulcoli Giuseppe fu Giovanni
Solomita Michele fu Raffaele
Solomita Pasquale
D. Cesare Catone
Aucella Nicola
Petruzzi Santolillo
Lambiento Salvatore
Solomita Pasqualantonio di Gius.
Bianco Giuseppe
Solomita Salvatore
Venuto Alfonsino fu Vincenzo
Cogliano Antonio fu Carmine
Pompeo Felice fu Saverio Pinto Vincenzo
Iannaco Vincenzo
Nitti Luigi
Cogliano Domenico
Fulchino Pasquale
Savignano Antonio
Caruso Pasqualantonio
Venuta Pietro
Caturano Giovanni
Fulchino Raffaele
Cogliano Nicolamario
Savignano Pasquale
Aldorasi Carmine
Pinto Antonio di Carmine
Fulchino Salvatore
Fulchino Agostino
Cogliano Pasqualantonio
Aldorasi Raffaele di Angelo
Caracciolo Raffaele
Cuoppelo Angiolo Raffaele
Venuto Alessio
Aucella Giuseppe
Nocera Giuseppe
Nitti Pasqualantonio
Zarrella Alfonso
Venuto Luigi
Petruzzi Pasquale
Forgione Antonio di Pasquale
Giusto Sabatino
Nocera Girolamo
QUESTUANTI
Iannaco Giuseppe
D'Amelio Angiolillo
Caracciolo Raffaele
Solomita Vincenzo fu Raffaele
Mannetta Angiolo
Cogliano Luigi
Iannuzzi Sabato
1876: SI SPEZZA LA FUNE CHE SOSTIENE L'ANGELO
A Gesualdo si è sempre parlato, senza poterlo precisare, dell'incidente occorso al bambino che, legato e sospeso alla fune tra il castello e la torre campanaria della Chiesa, nell'ultima domenica di agosto, con grande coraggio e devozione, rievoca l'avvincente lotta tra il bene ed il male. Si è sempre detto che "una anno" la fune si è spezzata ed il bambino è caduto sui rami degli alberi sottostanti, senza subire alcun danno serio, ma non si è mai riusciti a precisare né l'anno, né a documentare la notizia con qualche riferimento certo.
La preghiera, che di seguito viene trascritta integralmente, testimonia finalmente che il fatto è realmente accaduto nel 1876.
Altra testimonianza importante che, nella stessa preghiera vi si legge, è la grande siccità che interessò il nostro paese all'inizio del '900, tanto da spingere i devoti gesualdini ad impetrare San Vincenzo, "protettore speciale presso il Supremo", affinché, con la sua intercessione, si ponesse fine a tale calamità. Naturalmente le preghiere vengono esaudite, e il 28 maggio 1903 "larga copia di acqua" comincia a cadere sulle nostre terre assetate.
A parte l'importanza religiosa per questi due interventi miracolosi del nostro San Vincenzo Ferreri, resta, comunque, per i più scettici, la documentazione storica di due avvenimenti descritti da chi in prima persona li ha vissuti e che perciò non poteva scrivere cose non vere, tanto più che la stessa preghiera ha avuto l'approvazione del vescovo Giuseppe Padula l'8 agosto 1908: sono perciò trascorsi solo 32 anni dalla caduta del bambino ed appena 5 dalla siccità.
PREGHIERA A S. VINCENZO FERRERI
INCLITO PROTETTORE DEL PAESE DI GESUALDO
Apostolo gloriosissimo delle Spagne S. Vincenzo Ferreri, che mandato qual Angelo dell'Apocalisse ad annunziare a tutti popoli il vicino giudizio, predicaste sempre con tanto frutto da trarre non solo alla fede, ma anche alla penitenza la più fervorosa un numero straordinario di Maomettani, di Ebrei e di pubblici peccatori, facendo nel tempo stesso stupir tutto il mondo con una serie di stupendissimi prodigi; deh! per le tante esimie virtù di cui foste sempre un vero modello, ma specialmente per la vostra ammirabile carità mirate, o gloriosissimo Santo, con occhio benigno questa terra di Gesualdo, che vi elesse per suo avvocato e protettore speciale presso il Supremo Giudice delle anime nostre. Noi, che in modo speciale sperimentammo la Vostra eccelsa potenza nel 1876, quando non permetteste che fosse stata letale la caduta di un giovinetto, il quale, sospeso in alto, cantava le Vostre lodi; e nel 28 maggio 1903, quando accogliendo le nostre suppliche, larga copia di acqua mandaste sulle nostre arse campagne; noi, che in ogni calamità abbiamo sempre sperimentato il Vostro efficace Patrocinio, ricorriamo a Voi, o Taumaturgo S. Vincenzo, acciò dispensiate grazie abbondanti alle anime nostre, a tutte le nostre famiglie, all'intero popolo di Gesualdo, e facciate scendere sulle nostre campagne la Vostra Angusta Benedizione. Imprecateci, o Gran Santo, con la Vostra potente intercessione, il perdono di ogni nostra colpa, che contriti e con tutto cuore detestiamo ai pie' della Vostra Sacra immagine, ed otteneteci una perfetta osservanza dei divini Comandamenti. Impetrate la pace alle nostre famiglie e la prosperità spirituale e temporale ai nostri parenti e cittadini Americani, nei quali pur batte precoce l'alito della Divozione verso la Vostra Augusta effigie. Infine tenete da noi lontano ogni flagello della Divina Giustizia, e così, mercé il Vostro potentissimo aiuto, dopo aver servito e glorificato Iddio nella santità dei costumi a Vostra perfetta somiglianza fino all'estremo momento di nostra vita possiamo giungere a partecipare per tutti i secoli a quella specialissima Beatitudine, che Voi già godete nel Santo Paradiso. Amen.
PATER-AVE-GLORIA
AVELLINO, 8 AGOSTO 1908
Approviamo e concediamo 50 giorni d'indulgenza
+ GIUSEPPE VESCOVO+
Il risorgimento interessò Gesualdo solo di riflesso e sin dai primi tentativi insurrezionali del 1820 e 1821, che videro l’Irpinia testa di ponte di ardite azioni di rivolta e cospirazione contro lo strapotere borbonico, il paese rimase lontano e distaccato da quel fervore, piegato com’era all’indolenza e alla sciatteria dei suoi nobili e del suo sconfinato clero chiuso negli austeri monasteri.
Solo verso la metà del secolo la sola comunità e il popolo iniziarono ad animarsi di un qualche slancio reazionario, specie con vocazione garibaldina, per quel fascino contagioso che emanava il leggendario “Eroe dei due mondi”.
Qui di seguito riportiamo uno stralcio di un lungo articolo pubblicato in occasione del centenario della morte di Garibaldi, sulla rivista “Voce Altirpina” (n.2/6 Dicembre 1982) di Arturo Famiglietti dal titolo “GARIBALDI NELL’AVELLINESE”, nel quale si riporta la narrazione di un episodio, da molti sconosciuto, accaduto a Gesualdo nel 1856.
“…..Le visite garibaldine prima del ’60 in Irpinia furono sporadiche, sia per i vasti impegni del Generale, non per niente “eroe dei due mondi”, con riferimento al contributo dato nell’America Latina per l’affrancamento dei popoli d’oltreoceano, sia pe le difficoltà obiettive che monarchia e clero, nel Sud, frapponevano cautelativamente alle idee innovatrici e, in un certo senso, sovvertitrici dell’ordine costituito.
Non tutti i meridionali perciò erano disposti ad ascoltare Giuseppe Garibaldi e mentre i borbonici tenevano ancora saldo a Napoli il potere, certi di non doverlo cedere al primo avventuriero, del quale avevano vago sentore, circolavano volantini del generale nizzardo con accorati e disperati appelli a “combattere contro i mercenari del Borbone, non solo, ma quelli dell’Austria e quelli del Prete di Roma” (sic), con chiara e irriverente allusione all’innominato Papa, capo indiscusso del cattolicesimo.
A Frigento e Gesualdo, non mancarono sporadiche adesioni al garibaldinismo ed in particolare quelle di tal Giuseppeantonio Cozza da Frigento e Lorenzo Pesiri da Gesualdo, entrambi stimati artigiani fabbri ferrai.
Di sicuro vi fu il Cozza tra quelli che predisposero l’accesso clandestino di Giuseppe Garibaldi in Irpinia e fu così che il Generale, in un sabato primaverile del 1856, fu a Gesualdo, in casa Pesiri. L’indomani, giorno festivo in cui cadeva il mercato settimanale famoso nella zona per il commercio di verdure e di sementi presso l'attuale piazza Vittorio Veneto (già Piazza mercato), Garibaldi si sarebbe dovuto incontrare con contadini, artigiani e antiborbonici in genere per farne proseliti dell’insurrezione. Mio nonno (continua il Famiglietti) era da pochi mesi in Gesualdo, aveva 24-25 anni ed aveva contratto matrimonio con Maria Pasquala Carrabs, di Basilio, grosso commerciante di cuoiame, ottenendo in dote per la moglie una casa attigua separata da uno stretti vicolo a quella del predetto Pesiri per cui ebbe modo di avvertire trambusto, rumori sospetti e vedervi giungere il Garibaldi con uno stretto seguito. Ma il Generale, che dormì in tale casa, posta nell’allora Strada Borgo, poi ribattezzata Via Felice Catone ed attualmente Via Roma, non portò a termine il suo disegno in quanto, delatore un certo Nitti, e preposto al comune, pare, tal Pisapia, dopo precipitoso contatto con i primi avventori del mercato, sparì dal paese.”
Di questo significativo fatto di cronaca consacrato alla storia locale purtroppo non vi è rimasta traccia alcuna: lo stesso Famiglietti, conclude riportando la testimonianza di discendenti dei protagonisti della vicenda che amaramente confermano lo smarrimento di documenti di valore storico e di non pochi autografi garibaldini a causa di avverse circostanze unite a traslochi, terremoti, ecc.
Le successive vicende della storia del risorgimento segnarono un forte rilancio della comunità gesualdina che iniziò quella lenta affrancazione dai doveri, diciamo pure feudali, che per secoli l'avevano relegata al solo ruolo di servitù rispetto allo strapotere di Signori e signorotti che poco incisero, alla luce della storia, nella crescita sociale del paese.
Il brigantaggio nelle province napoletane: relazione della Commissione d'inchiesta parlamentare.
segue
stralcio della relazione sul brigantaggio letta dal deputato MASSARI alla camera del comitato segreto del 3 e 4 maggio 1863, con un riferimento a Gesualdo e al fenomeno del brigantaggio nel suo territorio
Questa mostruosa confusione della religione colla politica dà i suoi tristi frutti nelle provincie meridionali, ove il clero è in gran parte avverso al nuovo ordine di cose, e le popolazioni, più che devote, superstiziose.
Nella vostra peregrinazione in quelle provincie, ben vi siete convinti come questa attitudine ostile di Rima e del clero sia fomite possente di brigantaggio. Questa verità che dimana dai moltissimi documenti che avete raccolti , emerge in modo assai splendido da uno recentissimo trasmesso dal commendatore De Luca, prefetto della provincia d' Avellino.
Si è questo l'interrogatorio subito li 23 febbraio 1863 in Gesualdo dal capo brigante Pasquale Forgione, nanti la Commissione del mandamento di Frigento per la distruzione del brigantaggio. Ne riferiamo testualmente alcuni brani:
Domanda. Con questi convincimenti perchè non vi siete presentato voi ed i vostri compagni, persuasi che odiati da tutte le popolazioni la vostra vita era in pericolo ogni momento? Sturno stesso intimorito dato l’esagerato numero dei briganti che si diceva circondavano il paese, appena che era sgombro di due malfattori che vi entrarono, rialzava i stemmi di Vittorio Emanuele, e benediceva il suo nome e la unità italiana.
Risposta. Noi combattevamo per la fede.
D. Che cosa voi intendete per la fede?
R. La santa fede della nostra religione.
D. Ma la nostra religione non esecra i furti, gl'incendi, le uccisioni, le sevizie e tutti gli empi e barbari misfatti cbe ogni giorno consuma il brigantaggio, e voi stesso coi vostri compagni avete perpetrati?
R. Noi combattevamo per la fede, e siamo benedetti dal papa, e se non avessi perduta una carta venuta da Roma vi convincereste che abbiamo combattuto per la fede.
D. Che cosa era questa carta?
R. Era una carta stampata venuta da Roma.
D. Ma che conteneva questa carta ?
R. Diceva cbe chi combatte per ta santa causa del papa e di Francesco II non commette peccato.
D. Ricordate che altro conteneva detta carta?
R. Diceva che i veri briganti sono i Piemontesi che hanno tolto il regno a Francesco II, che erano scomunicati essi, e noi benedetti dal papa.
D. In nome di chi era stata fatta quella carta, di quali firme era segnata?
R. La carta era una patente in nome di Francesco II e firmata da un generale che aveva un altro titolo, che non ricordo, come non ricordo il nome; vi era attaccata una fettuccia con suggello.
D. Di che colore era la fettuccia e il suggello, e che impronta il suggello offriva?
R. La fettuccia era color bianco come tela; il suggello era bianco coli' impronta di Francesco II e delle lettere che dicevano Roma.
D. Non potendo ammettere né consentire che il papa possa benedire tante iniquità, né che Francesco II abbia potuto vilipendere la dignità di re ordinando omicidi, grassazioni, incendi , quando anche questi mezzi, t'umanità disonorando, avesser potuto fargli sperare il riacquisto del trono, però non può essere che una favola la vostra assertiva.
R. Essendoché avete fatto venire i bersaglieri e che sarò fucilato, persuaso come sono di morire, vi assicuro che ho tenuto quetla carta e che è verità tutto quello che vi ho detto contenere, e se attri, come me, sarà arrestato, vi convincerete allora che non ho mentito.
D. Che abbiate tanto ben legata al petto con un nastro uni piastra di Francesco II come medaglia non fa meraviglia, perchè credevate, uccidendo, grassando, rubando, combattere per lui. Ma come consumando tante scelleratezze, potete tenere a testimone di esse, e direi anche a complice, se scempia non fosse questa parola, la Vergine Santissima, portando appeso al petto questo insudiciato abitino colla sua effigie del Carmine? È cosa che fa credere la vostra religione più empia e scelleraia di quella che potrebbe avere un demone, se i demoni potessero avere una religione?Non è questa la più infernale derisione che possa farsi a Dio?
R. Io ed i miei compagni abbiamo la Madonna nostra protettrice, e se aveva la patente cotla benedizione non sarei stato certamente tradito.
Ed essendogli annunziato che si approssimava l'ora per lui fatale, risponde:
Confermerò anche queste stesse cose al confessore che spero mi sarà accordato. »
Firmò quindi il processo verbale.
É opera perduta l'aggiungere parole all'eloquenza di questo documento, che dimostra l'aberrazione ed il pervertimento morale cui si abbandonano questi infelici, che, fanatizzati da un clero propugnatore di guerra empia, ladra e fratricida, credono di farsi campioni della fede).
Felice Catone (1810-1907) si trovò a dover gestire la quanto mai difficile fase di transizione dal regno delle Due Sicilie allo Stato unitario. Il patriota e giurista gesualdino (sul quale si veda l’ampia e ben documentata voce di Giovanni Fulcoli nel Dizionario Biografico degli Irpini, Elio Sellino Editore, Avellino 2009, vol. IV, pp. 337-44), dotato di chiarezza di vedute e di prontezza di decisioni, doveva in effetti dimostrarsi pienamente all’altezza dell’arduo compito affidatogli.